Nicola Cecchelli - Elogio del Trucco
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- Pubblicato Martedì, 14 Maggio 2013 08:53
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“Chi mai oserebbe attribuire all’arte la sterile funzione di imitare la natura?
Il trucco non ha da nascondersi, né evitare di farsi percepire:
al contrario, può esibirsi se non proprio con affettazione, con una sorta di candore.”i
Charles Baudelaire
Pensando ai White paintings di Robert Rauschenberg risulta di particolare interesse la lettura di Leo Castelli, riportata da Alan Jones nella biografia del gallerista italoamericano: “I dipinti bianchi di Rauschenberg, con l’ombra dei visitatori che passano di fronte alla tela, rappresentano, in un modo curioso, le prime opere performative di un artista americano.”ii John Cage, che s’inspirò proprio a queste opere per concepire la storica composizione per pianoforte 4’33’’, definì i White Paintings superfici che “diventano aeroporti per le particelle di polvere e le ombre che sono presenti nell’ambiente.”iii
I dipinti di Rauschenberg non erano esempi di pittura “tradizionale” per il loro essere monocromatici, aspetto certamente fondante, ma non principale per comprendere la loro unicità. Le opere di Rauschenberg furono rivoluzionarie perché cercavano la pittura non nel pennello dell’artista, ma nello spaziotempo adibito a ospitarle, particolare dimensione che, grazie alle sue continue variazioni, rendeva l’atto di dipingere un processo interminabile.
A pochi anni di distanza, dall’altra parte dell’oceano, Piero Manzoni iniziava il ciclo degli Achromes. In questo caso l’aspetto più interessante fu l’uso di materiali non artistici finalizzati a mantenere suggestioni pittoriche in dipinti privati della caratteristica che li identifica in quanto tali e cioè la pittura stessa: di tela in tela il gesso e il caolino iniziano a lasciare spazio a feltro, polistirolo, pietre, uova e ad altri elementi che avevano come unico comun denominatore il colore bianco. In un saggio coevo alla realizzazione delle opereiv, Manzoni si rivolge a tutti quei pittori che“ si pongono a tutt'oggi di fronte al quadro come se questo fosse una superficie da riempire di colori e di forme, secondo un gusto più o meno apprezzabile, più o meno orecchiato [...] e continuano in questa ginnastica finché non hanno riempito il quadro, coperta la tela: il quadro è finito: una superficie d'illimitate possibilità è ora ridotta ad una specie di recipiente in cui sono forzati e compressi colori innaturali, significati artificiali.”v
Ho citato questi due cicli di opere perché sono stati i primi ricordi suscitatimi da Manifatture l’ultimo progetto di Francesco Fossati. Trovo analogie, infatti, tra l’installazione del giovane artista brianzolo e le opere menzionate in apertura del testo. Proprio come in Rauschenberg la pittura di Fossati, allontanandosi dal classico e riquadrato confine della tela, trova nello spaziotempo il luogo dove dispiegarsi ai sensi, avvalendosi, qui la memoria corre a Manzoni, di elementi extrapittorici che vanno a sostituire colori e pennelli.
Certo è che Manifatture non deve esser considerato un omaggio a questi due grandi artisti, così come ad altri che avremmo potuto richiamare, poiché l’intervento s’instaura consapevolmente nel tempo della propria contemporaneità: in un’epoca dove la pratica pittorica, in cerca di un nuovo status identitario, perde inevitabilmente la sua nostalgica autorità non essendo più, per riprendere le parole di Angela Vettese, “una musa unica, assoluta e autoreferenziale, ma lingua percorribile accanto alle altre."vi
Consapevole del proprio tempo, costellato tanto di “reazionari” ritorni all’ordine quanto di tentativi “progressisti” di ampliare la disciplina in una sorta di superamento della stessa, l’installazione di Fossati va letta come una piccola panoramica attorno a tale pratica contemplata sia nella sua accezione “classica” e anacronistica di mimesis sia in quella meta-artistica di derivazione modernista: la pittura in quanto illusione, le mirabili finzioni di Leonardo da Vinci, la pittura come oggetto specifico e la sua relazione con lo spazio circostante e infine, ma non ultimo, la pittura come desiderio che svela tutta la sua carica di appetibilità nei confronti del fruitore.
Lo stesso titolo del progetto è un ottimo punto di partenza per la nostra analisi: nella lingua italiana il termine manifattura, sia che esso intenda un oggetto lavorato a mano sia con l’ausilio di macchinari, definisce il frutto di un qualsivoglia operare umano.
Questa definizione, seppur approssimativa, può essere applicata alla maggior parte dei dipinti di ieri e di oggi.
Certo è che sin dall’entrata nello spazio espositivo trovare una giustificazione per l’impiego di tale vocabolo diventa difficile. Installata dal margine superiore della porta d’ingresso sino quasi a terra, vi è una parrucca femminile che ci invita a entrare per la sua piacevolezza ma allo stesso tempo preclude la soglia. Una volta penetrata tale “barriera” troviamo vari elementi che dislocati accuratamente all’interno dello spazio compongono l’installazione.
Il primo, sistemato sulla sinistra rispetto all’entrata, è un dittico di tele vergini abbondantemente acconciate da una folta chioma rossa. La voluminosità della capigliatura è accentuata ancor più da un ventilatore che con il suo roteare muove delicatamente le singole ciocche.
La direzione dello spostamento d’aria sposta, peraltro, anche il nostro sguardo sino alla parete sulla destra che accoglie una serie di tre identiche tele anch’esse acconciate e disposte arbitrariamente sulla parete. Qui le chiome pendono rigorosamente verso il basso fermandosi tutte alla medesima altezza dal suolo e andando così a disegnare una linea continua tra le loro estremità.
L’installazione, già dal titolo, è la messa in scena di una finzione.
L’esplicita presentazione di un’illusione dove i ruoli s’invertono: i segni di un’assenza, quella della materia pittorica tradizionale, divengono i segni della presenza del trucco, qui non usato per mascherare ma per esibire, il tutto giocato in un continuo cortocircuito tra obbiettivi discostanti. Il trucco nell’accezione d’illusoria finzione è trasfigurato giacché esibito da una presenza che esplica la reale natura di se stessa: nessuna delle parrucche riuscirebbe a illudere neanche per un momento, poiché, oltre alla palese natura di travestimenti qualitativamente approssimativi, il loro volume non riesce, se non in minima parte, a mascherare, ricoprendole, le bianche tele sottostanti. La parrucca-trucco, o se preferite il trucco-pittura, è resa volutamente incapace di nascondere, di farsi finzione verosimilmente accettabile.
Le fittizie acconciature, tuttavia, oltre a mostrarsi e svelarsi in quanto tali, mostrano e svelano contemporaneamente i limiti tradizionali del quadro propagandosi al di fuori di essi.
La volontà di considerare la pittura come installazione nello spazio e i suoi singoli tratti compositivi come oggetti reali è uno degli aspetti principali dell’intervento. Manifatture sottostà alla concezione di un progetto elaborato per parti progettate esclusivamente per quel particolare spazio espositivo, un organismo dai componenti inscindibili tra loro pena la perdita di quella particolare sensazione: un unico grande dipinto che avendo come limite la sede espositiva stessa, non più quindi i consueti bordi della tela, pretende di far entrare il fruitore materialmente nella restrizione in cui l’opera vive. “L’installazione trasforma lo spazio reale della galleria [...] nella matrice dell’oggetto assemblato, per cui lo spazio, in quanto scena su cui appare l’oggetto, diventa essenziale per l’esistenza stessa di quest’ultimo”.vii
Tutto questo rende Manifatture una specie di gioco di prestigio teso prima a smaterializzare la pittura e successivamente a restituircene qualcosa.
Fossati pur “attaccando” la musa nel profondo vuole però lasciarne intatta l’incantevole bellezza. Non si tratta qui, tuttavia, di una bellezza che potrebbe esser facilmente fraintesa con un tentativo di appagante pratica decorativa, di mero esercizio piacevole agli occhi.
L’autore fingendo non vuole creare ingannevoli illusioni ma mettere in scena il desiderio stesso, precisamente nell’attimo in cui quest’ultimo è proiettato dall’opera al di fuori di sé per attrarre il fruitore.
Manifatture è un elogio del trucco, citando nuovamente le parole di Charles Baudelaire che vide nell’acconciare, cioè nella cosmesi in generale, non qualcosa da rifiutare a priori come mendace e debilitante per l’arte “vera”, nel senso illuminista dell’espressione, ma qualcosa che la arricchisce e la onora. Fossati lontano dal firmare l’ennesimo epitaffio per la disciplina pittorica, rivolge alla di lei mano i suoi ossequi.
Sono partito citando Baudelaire e voglio concludere riportando un suo breve passo, differenziandolo, tuttavia, dall’originale. Ho sostituito, infatti, la parola donna con pittura, come se questa vetusta signora detenesse capacità e volontà proprie, così come la parola natura è stata trasformata in tradizione: “La pittura è proprio nel suo diritto e anzi compie una sorta di dovere quando si studia di apparire magica e soprannaturale: è necessario che stupisca e incanti; idolo deve dorarsi per essere adorata. La pittura perciò deve prendere a prestito da tutte le arti i mezzi di elevarsi al di sopra della tradizione per meglio soggiogare i cuori e colpire gli spiriti”.viii
i Charles Baudelaire, “Le peintre de la vie moderne”, in Figaro, 26 e 29 novembre, 3 dicembre, 1863, trad. it.: Charles Baudelaire, “Il pittore della vita moderna”, in Scritti sull’arte, Einaudi Editore, Torino, 2004, p. 308.
ii Alan Jones, Leo Castelli. The italian who invented art in America, © by Alan Jones, 2007, trad. it.: Alan Jones, Leo Castelli. L’italiano che inventò l’arte in America, Castelvecchi Editore, Roma, 2007, p. 124.
iii John Cage, “On Rauschenberg, artist, and his work”, in Silence: lectures and writings by John Cage, Wesleyan University Press, Hanover, 1961, trad. it.: John Cage, “Su Rauschenberg, artista, e il suo lavoro”, in Renato Pedio (a cura di), Silenzio: Antologia da Silence a A year from Monday, Feltrinelli Editore, Milano, 1971, p. 124.
iv Il testo di Manzoni fu pubblicato originariamente sul secondo numero della rivista Azimuth (1960).
v Piero Manzoni, “Libera dimensione”, in Elio Grazioli - Piero Manzoni, in appendice tutti gli scritti dell’artista, Bollati Boringhieri Editore, Torino, 2007, p. 183.
vi Angela Vettese, “Realismo intimo, una pittura ribelle”, in Patricia Ellis e Gianni Romano (a cura di), Intervista con la pittura, Postmedia Editore, Milano, 2003, p. 7.
viii Charles Baudelaire, op. cit., p. 307.
Francesco Fossati, Manifatture, 2009, installation view at Mon Ego Contemporary, Como, synthetic hair, canvases and fan, variable dimensions