Giorgio Viganò - Una conversazione con Francesco Fossati

Giorgio Viganò: Una considerazione preliminare : Arturo Martini, nel secolo scorso, aveva preconizzato pessimisticamente  “ La scultura? Una lingua morta”. Mai “proclama” è stato più clamorosamente smentito se solo pensiamo agli sviluppi e alle nuove e differenti direzioni in cui si è espressa l’arte plastica dopo quella affermazione .
Francesco Fossati: Sì, certo, se pensiamo all’istallazione come naturale sviluppo della scultura,  ma se prendiamo in esame solo la scultura come la si intendeva  allora, il discorso di Martini ha un senso, perché nello scorso secolo e nei primi anni di quello attuale la scultura ha cambiato le sue forme  e soprattutto ha  rinnovato i suoi materiali. Per cui se la analizziamo da un punto di vista linguistico (proprio come suggerisce Martini parlando di lingua  morta) allora possiamo accorgerci che nulla è cambiato, cioè la scultura si riduce ancora ad un discorso di pieni e di vuoti, volumi, estrusioni, aggetti, buchi, ecc…
L’unico vero scarto da questo punto di vista lo ha generato Calder, il quale fu il primo a creare delle sculture al tempo stesso bidimensionali e a tutto tondo. Inversamente la pittura ha attinto molto dal linguaggio scultoreo, basti pensare al lavoro di Castellani.
Un ulteriore scarto linguistico lo ha effettuato la nuova generazione di artisti che , in simultanea in differenti parti del mondo, hanno iniziato ad utilizzare tecnologie magnetiche ed elettromagnetiche per far lievitare le sculture, avvicinando la scultura ad un oggetto virtuale pur nella fisicità delle sue forme, anche se questo scarto è ancora una volta a livello istallativo, non nella natura stessa della scultura, ma in qualche modo ne modifica la nostra percezione dell’oggetto.
Nella stessa direzione si muovono le tecnologie che ci permettono di fruire della cosiddetta realtà aumentata, ovvero la possibilità di vedere attraverso apparecchiature elettroniche degli oggetti che nella realtà non esistono o comunque non sono presenti in quel dato contesto spazio-temporale, così avviene la smaterializzazione della scultura e diversi artisti in tempi recenti si stanno muovendo in questa direzione.   

GV: Veniamo al tuo lavoro. Come nascono queste tue ““sculture”” ? Ce ne puoi raccontare la genesi : è stata frutto di una ricerca con un materiale oggi abbastanza dimenticato o comunque poco usato dai giovani artisti  o piuttosto il risultato ottenuto è frutto di una “scoperta” casuale?
FF: ““Sculture”” nasce all’interno della ricerca teorica che, come artista visivo, porto avanti da alcuni anni; un’indagine dei media artistici che si sviluppa attraverso diverse combinazioni dei linguaggi. Non sono un tecnico e i  miei studi riguardo alla scultura sono stati limitati. Ricordo però di un professore, quando studiavo in Accademia, che mi disse “…con la creta puoi realizzare qualsiasi forma e di qualsiasi dimensione; l’unica cosa che non puoi fare è unire crete di due tipi diversi perché, quando essicano,  si ritirano in percentuale differenti e si rompono”, quindi quando ho iniziato a immaginare delle pitture realizzate attraverso il linguaggio scultoreo ho pensato subito ad unire due o più crete diverse.
Ho scoperto poi che le affermazioni di quel professore non erano molto veritiere perché esistono due tecniche specifiche  per unire crete di colore e impasto differente, una si chiama neriage  e solitamente ha una applicazione solo a livello superficiale sui manufatti, l’altra è la marmorizzazione che può essere utilizzata a livello volumetrico ma il colore viene unito in maniera casuale: io cercavo invece un’applicazione che avesse un senso a livello volumetrico e una certa autonomia di forme , ed ho trovato il modo di combinare le due tecniche. Da questo momento ho iniziato a sperimentare, alla ricerca di una modalità per realizzare le mie opere.
 Dopo una serie di tentativi, con qualche fallimento, penso di aver individuato il percorso che dovevo intraprendere quando ho visto una torta fatta dalla sorella della mia compagna: all’esterno molto semplice, ricoperta di cioccolato, ma appena tagliata, ha svelato al suo interno una scacchiera fatta dall’alternanza di due pan di spagna, uno normale e l’altro al cioccolato, e lì ho pensato che quella fosse la “sensazione” che volevo ottenere. La creta inoltre è un materiale povero, semplice e probabilmente il più antico utilizzato per realizzare delle sculture e quindi l’ho trovato perfetto per il mio progetto: il tentativo (inutile?) di rinnovare il linguaggio scultoreo attraverso il suo media più antico.

GV: Nella forma, con quelle “spaccature”, con quelle ferite, le tue terracotte riprendono una lezione e  una “tradizione” che risale ormai all’inizio del secondo dopoguerra. Quali affinità e differenze ritrovi rispetto alle creazioni di quel periodo?      
FF: Da un  punto di vista formale queste opere rimandano immediatamente alle Sculture Spaziali di Lucio Fontana, anche se nella sua produzione il gesto creativo assume un ruolo di fondamentale importanza; inoltre la fisicità dei “buchi” e dei “tagli” prevale sull’aspetto cromatico generato solo dal materiale e dall’alternarsi di pieni e vuoti.
Sempre nel periodo storico a cui stiamo facendo riferimento mi vengono in mente le sculture in terracotta di Carlo Zauli, con grosse spaccature e le forme modellate solo in parte dalla mano dell’artista.
Facendo poi un balzo in avanti di qualche decennio, ci possiamo riferire alle sculture  realizzate tra il 1984 e il ’94 dall’artista californiano Ken Price, per forma  e dimensione ricordano le mie. Price inoltre ha sempre analizzato in modo attento l’uso del colore nelle sue sculture anche se in maniera diversa da come la intendo  io oggi.

GV: Hai accennato ai richiami “storici” rispetto alla forma delle tue sculture. Considerato invece il lato “coloristico” del tuo lavoro con le terracotte e avvicinandoci ai nostri giorni, quali potrebbero essere, oppure quali sono stati (se ce ne sono stati) i tuoi “riferimenti” ovvero chi trovi quali tuoi antecedenti?
FF: Sono tanti gli artisti che lavorano con le arti plastiche che stimo; non so dire se qualcuno di loro intende la scultura e il colore nella stessa direzione che voglio analizzare con questo progetto, ma sicuramente mi affascinano molto le sculture in cartapesta di Franz West, recentemente scomparso, dove il colore crea un forte contrasto tra la percezione visiva  e quella materiale; anche i lavori tridimensionali di Yaiyoi Kusama all’interno dei quali l’aspetto coloristico dei pois trasforma completamente la percezione che abbiamo dell’elemento tridimensionale, e ancora di più le sculture degli anni ’80 di Anish Kapoor,  volumi geometrici complessi interamente coperti di pigmenti, ove il colore è fondamentale protagonista ma la plasticità è ancora l’elemento imprescindibile.

GV: Vi è anche tuttavia un coté pittorico che inserisce elementi plastici e tridimensionali nei quadri, quasi a trasformarli in sculture, ovvero rendendoli comunque “lavori” o opere differenti rispetto al semplice quadro.
FF: Esatto; è quello cui accennavo prima citando Castellani. A partire dai primi collage cubisti di Picasso e Braque, il modo di concepire la pittura è stato completamente rivoluzionato grazie all’inserimento di frammenti di realtà all’interno del quadro; negli anni ’60 si è arrivati addirittura all’annullamento del colore in favore degli elementi tridimensionali, mi riferisco in particolare agli Achrome di Manzoni e alle pitture monocrome con l’applicazione di spugne marine di Yves Klein . Gli esempi di artisti che hanno lavorato nella medesima direzione negli anni successivi sono moltissimi, ma non a caso cito Steven Parrino che, a partire dagli anni ’80, trasformò i suoi dipinti in opere tridimensionali, la ricerca di Angela de la Cruz che si muove nella stessa direzione,  anche i dipinti di puro  pigmento di Jason Martin hanno una forte valenza plastica.

GV: Nei nostri vari colloqui hai citato, parlando del tuo lavoro riferito a ““sculture”” , una pluralità di artisti, talvolta anche molto distanti tra loro; mi riferisco in particolare a Martin Kippenberger, Gleen Brown e addirittura  hai fatto riferimento anche ad un’opera impalpabile come Nothing di Pipilotti Rist. In che modo questi artisti, o il loro lavoro, ti ha  interessato ovvero ti ha influenzato o ispirato?
FF: A differenza dei precedenti quelli che hai appena citato sono artisti che mi interessano principalmente da un punto di vista teorico e non solo formale, pertanto per ognuno ci sarebbe bisogno di un discorso a parte, poiché si relazionano a questo mio progetto in maniera differente.
Di Kippenberger mi interessa principalmente la serie “Dear painter paint for me”; con queste opere l’artista tedesco ha riutilizzato la pittura come linguaggio espressivo-concettuale ed è quello che sto cercando di fare con la scultura. Per quanto riguarda Gleen Brown, mi riferisco in particolare alle sculture informi realizzate con pittura acrilica e olio che trovo un ottimo tentativo di coniugare pittura e scultura lasciando alla materia stessa la possibilità di definire la forma. Il lavoro di Pipilotti Rist mi interessa tutto perché il colore ricopre un ruolo centrale; in alcuni casi si potrebbe affermare che si sostituisce al contenuto; nello specifico di “Nothing” quello che mi interessa è la creazione di sculture talmente effimere che la forma è in continuo mutamento e movimento, una pelle di colore cangiante contiene una materia che nel momento in cui si libera da una forma definita è già pronta a svanire, si tratta inoltre di un lavoro ironicamente critico nei confronti degli artisti che riempiono le opere di concetti vacui.

GV: Perché ritieni che si possa parlare di innovazione attraverso delle opere realizzate con un media povero e antico come la terracotta?
FF: Concettualmente questo progetto si sviluppa in antitesi ad alcune teorie di Clement  Greenberg, il quale sosteneva che per raggiungere determinati criteri di qualità estetica l’opera d’arte deve cercare di evitare la dipendenza da qualsiasi esperienza che non sia insita nella più letterale ed essenziale natura del suo mezzo. E’ innegabile che già tutte le maggiori esperienze del postmodernismo hanno cercato di scardinare e confutare le tesi di Greenberg, ma lo hanno fatto con un atteggiamento tipico delle avanguardie ossia osteggiando e opponendosi fortemente alla sua lettura critica, fino ad arrivare a censurarlo, ma quasi mai cercando di confrontarsi con teorie critiche di innegabile lucidità.
Quello che ho cercato di fare con questo progetto è quello di rileggere le teorie di Greenberg  alla luce di due esperienze alle quali riconosco una particolare importanza : da una parte Post-Human  e le teorie legate al tema dell’identità  di Jeffry  Deitch che nel 1992 hanno generato l’omonima mostra e dall’altra il “movimento” nato dalla presa di posizione dell’artista Miltos Manetas esplicitata nel testo websites are the art of our times,  scritto tra il 2002 e  il 2004.
““sculture”” infatti parla di identità, della sempre crescente necessità di modellare e plasmare l’aspetto esteriore tanto degli uomini quanto delle loro creature commerciali per essere meglio veicolate con l’ausilio degli odierni mezzi di comunicazione, così queste opere nascono attraverso un procedimento tecnico il quale impone nella fase terminale che le sculture vengano compresse, potendo definire così in modo puntuale la parte esteriore, ma allo stesso tempo trasformando in  maniera incontrollabile la materia all’interno e dunque il disegno che viene svelato solo  al momento del taglio del volume.
Pertanto il mio progetto cerca di analizzare con uno sguardo nuovo il tema dell’identità in relazione alla virtualità, ai new-media e alle nuove forme  di comunicazione, ma lo fa attraverso un mezzo che non attiene alla tecnologia ma è piuttosto uno “strumento specifico” dell’arte.

GV: Ho notato che pur avendo un percorso artistico piuttosto breve, considerata anche la tua  giovane età, hai già sperimentato differenti mezzi espressivi quali la fotografia, la pittura e adesso la scultura. Queste espressioni artistiche fanno tutte parte dei tuoi interessi, oppure stai sperimentando i differenti media  alla “recherche” di quello che sarà il tuo approdo finale come precipuo mezzo espressivo?
FF: Tutti quelli che hai citato mi interessano e anche quelli che non hai citato come il video,la performance, l’istallazione, il disegno, il web, ecc…senza nessuna limitazione perché il centro della mia ricerca è il linguaggio e pertanto mi servo di tutti i mezzi che conosco per analizzarlo. Attualmente non so se in futuro ne sceglierò uno in particolare e quindi lavorerò solo con quello, ma ne dubito. Il mezzo è  strumento che l’artista utilizza per dare forma alle sue idee ed io voglio trovare sempre il modo migliore per concretizzare le mie idee; non credo quindi che  limitare il campo d’azione possa aiutare questo processo.

(Estratto da una serie di conversazioni, avvenute in diversi luoghi tra giugno e  luglio 2012,
tra l’artista e Giorgio Viganò).

Francesco Fossati, #013 (dalla serie ""sculture""), 2012
terracotta, 18 x 12 x 18 cm

 

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