Lorenzo Madaro - Ecologia dell’autosufficienza - 2021
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- Pubblicato Mercoledì, 17 Gennaio 2024 09:50
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C’è una forma di resistenza nella ricerca di Francesco Fossati, riguarda la pratica della produzione e dello stesso concepimento dell’opera, in un processo che è insieme mentale e rituale, capace di muoversi con disinvoltura tra bidimensionalità e scultura, installazione e spazio. Con rigore e sistematico impegno, concepisce opere che sono dispositivi di pensiero e che anche quando prendono in prestito immagini assimilabili a profili riconoscibili – foglie, per esempio –, non approdano mai su binari narrativi. Da oltre cinque anni Fossati – e nella mostra Liminal Wild Plants propone gli esiti più recenti di questo percorso di ricerca ormai lungo e decisamente complesso – ha avviato un discorso attorno alla natura (anzi, sarebbe più appropriato dire “dentro”), intesa non tanto come soggetto, ma come presupposto e dispositivo processuale in grado di generare forme e spazi, corpi scultorei o segni. Le prime tracce di Organic Pictures sono del 2016: Fossati iniziava così a concepire tecniche di stampa ecologiche, trasferendo i pigmenti di determinati materiali botanici – per esempio radici, verdura, foglie, frutta – su tessuti di fibre vegetali come il cotone e il lino. Erano opere a chilometri zero, le materie prime venivano rintracciate nel suo orto e nelle immediate vicinanze del suo studio e anche il trasporto per mostre o installazioni nelle case dei collezionisti avveniva attraverso soluzioni non impattanti. A un lavoro artistico indirizzato a un discorso sull’ecologia – sempre più sbandierato in diversi contesti, anche espositivi, che riguardano architettura, arti visive e pratiche sociali –, Fossati ha scelto una via concreta, immediata, eppure solitaria e delicata. Ha quindi deciso di iniziare in autonomia un percorso di rigenerazione in grado di non pesare sull’ecosistema, anche semplicemente per quel che riguarda la produzione di pigmenti propedeutici alla realizzazione di opere pittoriche. Perciò ha autoprodotto e in alcuni casi anche distribuito ad altri artisti dei tubetti di colore naturale al 100%, anch’essi a chilometri zero quindi a impatto ambientale nullo. È l’ecologia dell’autosufficienza, che ribadisce non soltanto l’autonomia della ricerca artistica rispetto ai ritmi esterni del consumismo e della contaminazione, e un rapporto profondo con le piante, con la loro vita. Le tele realizzate con stampe vegetali su cotone biologico sono pertanto un ecosistema autonomo. Le foglie di castagno diventano pertanto delle possibili reliquie di un mondo distrutto, che attraverso il proprio operare Fossati recupera e preserva. Foglie come moduli visuali, quindi, in grado di astrarsi da specifici contesti. Sembrano battelli alla deriva, raccontano di un movimento primordiale, libero, scevro da ogni possibile prospettiva compiuta, ma in divenire. Tali sono anche le geografie che si possono identificare osservando a distanza ravvicinata le sue tele di grandi o medie dimensioni: il sommacco siciliano, una pianta della famiglia delle Anacardiaceae, diffuso tra Palermo e Trapani, ma anche in Medio Oriente e Nord Africa, è una tra quelle entrate nella dinamica visuale e formale di Fossati. La forma diviene così un modulo, uno spazio potenzialmente riproponibile, elemento in grado di essere riproposta piegando la tela stessa nelle fasi di tinteggiatura. Alcune foglie infatti sono marcatamente presenti sulla superficie, altre si disperdono visivamente fino a diventare quasi delle macchie, che ritmano i piani. Stratificando queste immagini, si costruisce un percorso, una mappa immaginifica. L’artista non ci dà l’opportunità di assistere alle fasi di realizzazione, non le documenta, ma chiaramente tutto il processo si percepisce tra le pieghe dell’opera. Gli intenti di Fossati non sono mai didascalici, l’artista non intende insegnarci nulla, ma vuole percorrere insieme un percorso di consapevolezza.
La resistenza della natura riguarda intimamente tutta la sua pratica, quindi, che muta forme e cambia prospettive formali, come accade anche con la corteccia ripensata attraverso l’applicazione della foglia d’oro. La presenza di quest’opera – Scorteccia – in mostra fa affiorare due ordini di questioni: da un punto di vista tecnico-operativo c’è la capacità di Fossati di mettersi sempre in discussione, di relazionarsi con dissimili linguaggi e norme operative; dall’altro c’è una ulteriore messa in scena di una natura in grado di resistere ma anche di cambiare pelle, di modificare la propria stessa consistenza visuale. Questo cimelio di una privata escursione in un bosco brianzolo, ci consente di porci ulteriori quesiti su quello spazio liminale in cui il brandello di legno è in realtà un memorabilia da contemplare con la cura dello sguardo. Dorarlo rivela il desiderio di affidargli un ruolo rituale, quasi magico, spingendo il discorso di Fossati su declinazioni antropologiche, anche perché – ed è un dettaglio non secondario – questi materiali sono stati raccolti direttamente dall’artista in ambienti poco modificati dall’uomo. In fondo Francesco Fossati è un ricercatore in grado di compiere perlustrazioni costanti tra differenti discipline: il suo impegno è plurale, negli anni infatti si è mosso dalla scultura capace di intercettare riflessioni sulle proprie logiche formali a un impegno sul fronte dell’arte pubblica, a un’operatività nei confronti di qualcosa di più ampio, senza confini, ovvero la salvaguardia della natura. Nel lavoro di Fossati però non c’è nulla di quel carattere performativo e iconico di Beuys, quanto piuttosto un impegno militante costituito da piccoli gesti, intimi, silenziosi, immaginifici. A Fossati interessa infatti ciò che è scarto, ciò che è liminale nei sentieri che percorre. La sua arte è il luogo di nuove alleanze, tra strati di materia assolutamente lontani, ma che Fossati è in grado di assembramenti e metamorfosi.
Spoglie fragili sono anche le sculture realizzate utilizzando il riccio di ippocastano: all’interno le castagne sono rivestite di foglia oro, foglia argento e gommalacca: sono anch’essi brandelli di una natura che resiste, provengono da paesaggi liberi e incontaminati, contesti totalmente estranei al sistema economico e sociale, agricolo e commerciale. Con il proprio gesto, Fossati costruisce una trasfigurazione, dà un valore a qualcosa che ignoriamo a forme che stupiscono per la loro complessità. Niente di nostalgico, niente di bucolico. Anzi, l’operazione che compie l’artista è assolutamente concettuale, non a caso un’altra declinazione di questo lavoro è quello del display. La struttura in multistrato, metallo e carta che costituisce la struttura che regge questi elementi fragili e insieme forti, restituendoli alla loro relazione con lo spazio. Non c’è niente di scientifico nel percorso che Fossati porta avanti, il suo legame empatico con ciò che appartiene alla sfera della natura riguarda la dimensione ancestrale di un ambito quanto mai attuale nell’era dell’antropocene: oggi la natura è ancora uno spazio assoluto di conoscenza di ciò che siamo noi e di ciò che è fuori da noi. Impastando foglie e carta adottati durante la bollizione, che è un processo di riferimento nel concepimento delle tele, Fossati realizza sculture dalle forme primarie, geometrie che si estrudono nello spazio, seppur nelle piccole dimensioni, per generare nuovi perimetri, inedite soglie con cui interfacciare lo sguardo e il passo. Persiste così quel gusto per la forma, per i moduli primari in grado di ripetersi, di autogenerare nuove porzioni di spazio, così come accade sui profili lisci delle tele. Sono spazi di trasformazione, materie che incontrano altre materie nell’orbita di una ecologia della coscienza scultorea, che genera forme dagli scarti di precedenti lavorazioni. Lo studio di Fossati diviene così l’atelier di una rigenerazione costante, di un processo del riuso che è tangibile e mai urlato. In un persistente momento di Post-production, Fossati preleva forme care alla storia dell’arte minimalista, ma lo fa per suggerirci determinate riflessioni e consapevolezze. Per farlo, si serve di forme che già ci sono famigliari, di geometrie vicine ai nostri immaginari, di moduli che siamo in grado di riconoscere con efficaci sguardi ravvicinati.
Trasformazione: è questo che guida l’agire di Francesco Fossati ed è tale l’esempio che le sue opere ci indicano. E se i brandelli delle piante e le protuberanze delle sculture precisano un processo che non vuole mai deliberatamente essere perfetto, l’insieme dei lavori in mostra rivelano una progettualità in divenire, in grado di mutare pur nella coerenza di un’impostazione che è prima di tutto ciclica. Dalla natura si parte e alla natura si approda, per Fossati, per le sue opere e per i nostri sguardi più o meno consapevoli. In quella mescolanza di opposti, di mondo e natura, unioni e lontananze, di interrelazioni del vivente e display, con un loro ordine e quindi un proprio ordinamento interno, il percorso di Fossati è rivelatorio nel suo voler essere volutamente precario, fragile, mutante. Ce lo insegna anche un pensatore radicale del nostro tempo, Emanuele Coccia, quando ragiona sulle metamorfosi delle piante: quando spiamo dei brandelli di natura ci stupiamo, perché è un microcosmo straordinariamente dinamico. Con discrezione e i tempi lunghi del fare tutto ciò accade anche in quel processo silenzioso e appartato che è alla base di queste opere di Francesco Fossati.
Francesco Fossati, Liminal Wild Plants, 2021, exhibition view at Manuel Zoia Gallery, Milan, ph. Cosimo Filippini
Francesco Fossati, Liminal Wild Plants, 2021, exhibition view at Manuel Zoia Gallery, Milan, ph. Cosimo Filippini
Francesco Fossati, Liminal Wild Plants, 2021, exhibition view at Manuel Zoia Gallery, Milan, ph. Cosimo Filippini
Francesco Fossati, Liminal Wild Plants, 2021, exhibition view at Manuel Zoia Gallery, Milan, ph. Cosimo Filippini
Rossella Moratto - Hortus siccus Hortus vivus - 2022
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- Pubblicato Mercoledì, 17 Gennaio 2024 09:25
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Osservare la natura, collezionarne frammenti, ordinarli, classificarli, nominarli e raffigurarli: fin dall’antichità l’uomo ha sentito la necessità di conoscere la natura e l’erbario (hortus siccus) è stato il primo strumento per ordinare e dare forma all’ambiente vegetale al fine di stabilire un sistema razionale, comprensibile e riconoscibile, riflesso della nostra forma mentis. Raccolte di piante essiccate, trattati e successivamente libri miniati e illustrati: classificazioni della infinita varietà delle specie vegetali, raccolte e conservate.
Anche Francesco Fossati cerca, preleva, conserva, sedimenta, essicca: fa propri i gesti antichi, percorre boschi e terreni incolti, perlustra il territorio alla ricerca di radici, foglie, rami, frutti, preferibilmente di specie autoctone, spontanee, perfino infestanti. La natura generatrice offre incontri inaspettati e improvvisi, guidati dalla capacità di osservare, di cogliere la caduca bellezza del frammento e di stupirsi. La raccolta, discreta e rispettosa che ricorda l’attitudine paziente degli studiosi botanici, è alla base del lavoro di Fossati che così reperisce la materia prima con cui costruisce il suo erbario personale. Mettere in ordine, per poi utilizzare, significa anche mettere in salvo, preservare in nuove forme: il residuo naturale è trasformato in immagini attraverso procedure e tecniche memori di tradizioni e rituali popolari, come la stampa su tela ottenuta tramite l’impressione di foglie e rami secchi attraverso la bollitura, come nelle tele qui esposte Rami [1] e [2] (2022) e X [castagno],(2022). Queste tele sono parte delle Organic pictures sperimentazioni a cui l’artista si dedica dal 2016, in cui utilizza, di volta in volta, foglie e rami di specie diverse. Da questo procedimento derivano superfici impresse con delicati motivi vegetali che si ripetono ritmicamente sovrapponendosi, armonizzando la molteplicità del dettaglio in una ripetizione seriale mai identica – alcune tracce sono evidenti, altre più labili – che testimonia dell’artigianalità del lavoro e della sorpresa degli esiti della stampa ai quali partecipa inevitabilmente il caso, l’imprevisto. C’è sempre qualcosa di magico e inatteso in questo processo che fa eco a riti alchemici e a credenze tradizionali e anche a un’attitudine ludica, ai giochi di infanzia: non a caso, nell’ambito della residenza per artisti B.R.A.C.T. di Tricase (Lecce) nell’estate del 2020 Fossati ha realizzato dei “dipinti organici” insieme alla moglie e ai due figli piccoli.
Hortus siccus dunque ma anche hortus vivus quello di Fossati, un microcosmo vegetale in divenire, come in Substrati (2022) sculture “viventi” realizzate con “panetti” per la coltivazione di funghi: corpi vegetali atipici che nonostante l’interruzione del processo per disidratazione continuano lentamente la loro crescita resistente.
Emerge così la doppia attitudine dell’artista nel relazionarsi con la natura, una statica (la stampa come azione che fissa un dato momento e aspetto sulla tela), l'altra dinamica (le sculture fungine nella continua trasformazione e incontrollabilità del loro sviluppo).
Un erbario vivo, mutevole che va nella direzione di una creatività che nasce dalla relazione empatica con l’ambiente in una prospettiva che fa propria la lezione di Joseph Beuys: l’arte come strumento liberatorio e di crescita in grado di «dare all’uomo una nuova posizione antropologica […] collegarlo verso il basso con gli animali, le piante, la natura così come verso l’alto con gli angeli o gli spiriti».
Fossati testimonia questo legame, consapevole che lo sguardo dell’arte, nella sua dimensione sospesa, lascia intuire sensibilmente la vita che sta intorno a noi.
Francesco Fossati, Hortus siccus Hortus vivus, 2022, installation view at Surplace, Varese, ph. Luca Scarabelli
Francesco Fossati, Hortus siccus Hortus vivus, 2022, installation view at Surplace, Varese, ph. Luca Scarabelli
Francesco Fossati, Hortus siccus Hortus vivus, 2022, installation view at Surplace, Varese, ph. Luca Scarabelli
Francesco Fossati, Hortus siccus Hortus vivus, 2022, installation view at Surplace, Varese, ph. Luca Scarabelli
Francesco Fossati, Hortus siccus Hortus vivus, 2022, installation view at Surplace, Varese, ph. Luca Scarabelli
Francesco Fossati, Hortus siccus Hortus vivus, 2022, installation view at Surplace, Varese, ph. Luca Scarabelli
Francesco Fossati, Hortus siccus Hortus vivus, 2022, installation view at Subplace, Milan
Marta Cereda - Studio Visit
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- Pubblicato Martedì, 14 Maggio 2013 09:33
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Articolo pubblicato su ArtsLife.com
È la prima volta che Francesco Fossati (Carate Brianza, 1985) apre le porte del suo studio a un estraneo. «Normalmente lo spazio non è così in ordine. Di solito lavoro tanto, lasciando tutto in giro, poi arrotolo i disegni, metto via tutto e comincio con nuovi lavori». La luce zenitale della mansarda illumina una scrivania ingombra di piccole tavole, che fanno parte di “Hippy Architecture”. «Sono pezzi unici, foto dipinte e applicate su legno. “Hippy Architecture” è un lavoro che riflette sull’idea di pittura unendo due generi diversi, da un lato l’optical degli anni Sessanta e Settanta, dall’altro quella che io definisco di paesaggio, anche se i soggetti sono in realtà delle architetture che identifico come hippie. Si tratta di una categoria molto ampia, che comprende costruzioni che vogliono avere un rapporto con l’ambiente circostante e, in questo modo, diventano pitture di paesaggio. Ci sono case costruite a mano, edifici ecosostenibili, che ho catalogato in un archivio creato da immagini raccolte da internet, riviste e libri. Questo lavoro vuole scardinare il concetto di site specific, essendo infinitamente modulabile e adattabile a contesti diversi, in grado di leggere la pelle dell'edificio.».
In diversi lavori la tecnica pittorica rappresenta una componente importante. Spesso anche se parti da un’immagine fotografica essa viene trasformata.
«Anche se non sempre le opere si concretizzano in pittura però spesso partono da sperimentazioni pittoriche che poi prendono altre strade. In “Update required”, per esempio, ho fatto una mappatura delle targhe commemorative dedicate agli artisti nella città di Milano, ho successivamente preparato le immagini per la stampa e poi ho ridipinto le foto, includendo tutti i segni grafici che normalmente vengono tagliati. Sono entrato in dialogo con questi artisti con un atto materiale, ma ho unito anche mezzi differenti, perché ho scelto di trasformare la tela in uno stendardo appeso a un neon».
Anche le tue ““sculture”” risultano pittoriche.
«Sono un’indagine sulla pittura, attraverso la creazione di opere tridimensionali che hanno senso solo in relazione alle immagini visibili al loro interno. Quando ho iniziato a pensare di voler realizzare un dipinto con il mezzo scultoreo, l’idea era di unire terre di colore diverso, ma mi era venuta in mente un’affermazione di un mio professore che sosteneva ciò non fosse possibile. Effettivamente ci sono grosse limitazioni ed è un processo molto lungo, che ho perfezionato con l’aiuto di un vasaio. Talvolta quando termino un nuovo lavoro chiedo a qualcun altro di realizzarne un esemplare, per riuscire a distaccarmi e non considerarlo come il risultato dell’opera “dell’artista genio”».
Un’altra caratteristica del tuo lavoro è il fatto che, in molti casi, alla base ci sia un archivio. Questo ti consente di lavorare per serie potenziali, perché un lavoro limitato diviene grazie alla catalogazione potenzialmente estendibile?
«Sì, l’archivio è un elemento che si ritrova spesso. Anche in “Sometimes I think about the cities”, un lavoro iniziato nel 2011 che vorrei sviluppare non appena riuscirò a liberare il mio piano di lavoro, avevo creato un archivio di immagini di megalopoli, da cui ho realizzato, tagliandole a strisce verticali e riassemblandole, un nuovo orizzonte piatto per ripensare le città in maniera utopica, scomponendo le foto e creando delle astrazioni, delle geometrie sia sopra che sotto l'orizzonte».
Ai tuoi archivi e ai tuoi procedimenti di catalogazione si associa l’idea di scientificità, limitata però dalla presenza di un criterio di scelta estremamente personale. Questa caratteristica è evidente nel titolo del tuo libro d’artista.
«“Una storia parziale degli artist-run spaces dal 1858 insino a’ tempi nostri” raccoglie la storia di spazi espositivi gestiti da artisti. Si tratta di una storia parziale perché, pur essendo una ricerca molto ampia, ho deciso di non includere troppe realtà, per scarsità di informazioni, per un limitato interesse o perché in un’area geografica che avevo scelto di non trattare. Ho perso di scientificità, aumentando, però, la qualità dell’informazione. Da questo progetto è nato un numero della rivista “E il topo” che ho realizzato autonomamente in cinquanta copie e che ha portato alla rinascita del giornale, dopo sedici anni di inattività. Il primo numero, tra l’altro, è stato sviluppato dalla stessa idea che mi ha condotto a “Update required”: ero fermo con lo scooter a un semaforo di Milano, ho visto una targa dedicata a Filippo Tommaso Marinetti e ho pensato di raccogliere foto di artisti scomparsi negli ultimi sedici anni».
La presenza del tuo sguardo dunque condiziona il risultato, rendendo l’approccio non completamente rigoroso?
«Sì, nei miei lavori, nonostante io cerchi di lavorare in maniera scientifica, inserisco inevitabilmente il mio vissuto. Anche nell’interesse per l’elemento luminoso e per la gamma cromatica presente in molte mie opere unisco una componente scientifica e una emozionale: mi interessa rendere l’esperienza della luce in maniera fisica. In “Hippy Architecture” l’idea di avvolgere le pareti di una stanza con un arcobaleno si lega alla possibilità di sperimentare un’esperienza di percezione cromatica».
I titoli rivelano questa parzialità, questa assenza di pretesa di scientificità, per esempio in “Strumento imperfetto per tracciare arcobaleni”.
«In questo lavoro abbino l’idea del disegno tecnico all’arcobaleno, quindi un elemento effimero a una dimensione scientifica, rendendo tangibile la potenzialità di questo oggetto, in bilico tra la possibilità di utilizzarlo e il non poterlo usare. Vorrei crearne uno per ogni mia mostra personale, aggiungere un esemplare a cadenza irregolare».
Parliamo di “Late Again”. Guardando la serie ho pensato a una riflessione di carattere anti-celebrativo.
«Sono fotografie applicate su dibond, con telaio. È un lavoro sui due modi di usare la fotografia, come stampa o come documentazione di un processo artistico che non lascia residui come la performance. Mostrando nei riflessi sulla superficie della coppa il fotografo, registro un aspetto inutile, viene documentato un atto fotografico, generando così uno scarto a livello linguistico che unisce le due modalità. La tua interpretazione di questo progetto non coincide con i presupposti dell'opera, ma questo non mi disturba, perché l'obiettivo del mio operare è la coincidenza tra forma e significato. Il soggetto diventa un pretesto per parlare di qualcos’altro, voglio fare un lavoro di carattere metalinguistico, esclusivamente sul linguaggio».
Francesco Fossati, Update Required, 2012, vista dell'installazione presso Flash Art Event, Milano, due elementi olio su tela e neon, 170 x 150 cm ognuno, courtesy Galleria Cart, Monza
Update Required [This is the house where in 1905 Filippo Tommaso Marinetti founded the magazine “Poesia”...], 2012, detail, oil on canvas and neon, 150 x 170 x 8 cm
Camilla Remondina - Se l’arte fosse un autunno deep - 2023
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- Pubblicato Mercoledì, 17 Gennaio 2024 09:19
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La mostra Eight Autumns, esposta presso IAGA Contemporary Art (Cluj-Napoca, Romania) dal 14 dicembre 2023 al 20 gennaio 2024, vuole essere un momento di sintesi e di restituzione del ciclo Organic Pictures avviato dall’artista Francesco Fossati a partire dal 2016.
Si tratta di opere su tela realizzate con la tecnica dell’ecoprint: attraverso un processo di bollitura, l’elemento vegetale - che esso sia una foglia, una radice, un ortaggio o una bacca - sprigiona i propri pigmenti così da imprimere permanentemente sul tessuto la forma, le venature e i dettagli, a volte in modo deciso ed altre più sfumato ed evanescente. Il materiale organico, quindi, non viene adoperato dall’artista come una sorta di timbro su cui applicare il colore, ma diventa unico medium pittorico.
Il risultato è una serie di composizioni dai pattern per lo più simmetrici, ottenuti dalle piegature del tessuto necessarie all’immersione in acqua durante la procedura di stampa, e dalle astrazioni geometriche solo all’apparenza in contrasto con le forme armoniose della Natura: questa coesistenza, infatti, incarna idealmente le proporzioni, l’equilibrio della sezione aurea regolatrice di tutti gli elementi.
Nel lavoro di Fossati, la stampa ecologica non si limita ad essere a minimo impatto ambientale solo nelle modalità, ma rispecchia questo principio anche nella scelta di supporti in stoffe biologiche, come cotone e lino, e persino del momento in cui cogliere le materie prime per non interromperne il ciclo vitale. Infatti, gli elementi utilizzati vengono raccolti esclusivamente appena prima di seccare, a volte anche da terra, in modo da conservare la linfa ancora al loro interno. Inoltre, questi provengono dall’accurata coltivazione biologica seguita dallo stesso artista oppure dalle strade e dai luoghi abbandonati in città dove effettua delle escursioni alla ricerca di piante alimurgiche e spontanee, le quali riescono a crescere nonostante l’eccessiva cementificazione condotta dall’uomo e simboleggiano la Natura che trova, si riappropria del proprio spazio.
Se nell’industria alimentare si cerca sempre più una destagionalizzazione dei prodotti soprattutto di origine vegetale, al contrario Fossati mira ad una stagionalità dell’arte, rispettando e lasciandosi guidare dai cicli naturali, motivo per cui alcune opere possono essere realizzate solo in determinati periodi dell’anno. Così ci ricorda i tempi, neanche troppo lontani, in cui erano il clima, le stagioni e l’alternanza giorno/notte a scandire la vita dell’essere umano.
Intraprendendo questa strada all’interno della ricerca artistica e non solo, grazie alla sua sensibilità, l’artista ha scelto di porsi come un ospite riconoscente nei confronti della Natura e in ogni dettaglio non manca di riconfermarsi coerente e sinceramente coinvolto nelle questioni legate all’ambiente, ad esempio attraverso l’accortezza di alimentare il proprio studio con fonti di energia sostenibili.
Per la buona riuscita della composizione è necessaria un’attenta guida da parte dell’artista ma, nonostante questo, egli ritiene di avere un ruolo marginale nella produzione poiché riconosce la dote e la “magia” della Natura che sa farsi arte ed è da sempre essa stessa opera d’arte. La stessa magia che avviene al dispiegamento, allo svelamento della tela, quando con sorpresa si scoprono e si esaminano le varie sfumature di colore e i particolari, in parte incontrollabili e imprevedibili, stampati indelebilmente. A questa meraviglia si somma lo stupore nel vedere come una pianta possa imprimere una traccia sul tessuto e rilasciare cromie inimmaginabili rispetto a come appare in natura. I ruoli sono quindi invertiti: la Natura è autore consapevole, origine e risultato, mentre Fossati diventa strumento, o forse medium, di tale operazione artistica.
Eight Autums si pone come un progetto puntuale, volto ad indagare con precisione le declinazioni assunte finora dal ciclo Organic Pictures, l’affinamento della tecnica dell’ecoprint e del pensiero alla base della sua poetica più recente. Per queste ragioni, ogni anno di produzione dal 2016 al 2023, ogni autunno appunto, è rappresentato da almeno un’opera della serie e lo stesso allestimento, delicato e pulito come il suo linguaggio, guida nell’analisi delle varie sfaccettature del lavoro.
Nella prima sala, la protagonista principale ed unica è la foglia del Sommacco.
Questa selezione di opere dimostra come lo stesso soggetto, la stessa pianta, possa dar vita a composizioni diverse. Persino nelle tonalità più intense o meno, calde o fredde - da qui il richiamo all’armocromia nel titolo del saggio - e nella resa della stampa si possono notare differenze che variano a seconda dell’anno di realizzazione o il luogo di raccolta, per via delle condizioni climatiche, del momento dell’anno, quindi del ciclo vitale, e anche dell’età della pianta. La tela stessa, soggetta alla bollitura, a volte assume colorazioni differenti spezzando così il ritmo della geometria ([] Sommacco, 2022).
Come un entusiasta botanico, Fossati ha costituito una sorta di erbario degli elementi naturali utilizzabili per questa pratica: non tutti hanno la stessa resa, alcuni nemmeno rilasciano il loro “inchiostro”, ma solo attraverso questi tentativi, o esperimenti se vogliamo vederlo come uno studioso, gli è stato possibile maturare maggiore consapevolezza e padronanza della tecnica in questi otto anni.
Il secondo ambiente, più spoglio alle pareti per concentrare l’attenzione sulle tre grandi tele che oscillano sinuosamente nello spazio centrale, è dedicato alla geometria e allo studio della composizione, costanti che, come si diceva inizialmente, riecheggiano in tutto il ciclo.
In alcune opere le simmetrie date dalle pieghe del tessuto si rivelano essere imprecise e, per questo, ancora più interessanti poiché permettono di vedere simultaneamente le due facce della stessa foglia, il suo lato più liscio e omogeneo e quello ricco di nervature (Triangles Liquid Amber, 2021). A volte, però, la tela non viene piegata su sé stessa e per questo motivo, dato che non presenta simmetrie definite, viene evidenziato l’intervento dell’artista nel costruire il disegno (Nocciolo, 2018) e nell’emulare l’ordine della simmetria (XXXX [eucalipto], 2020). In altri casi l’elemento naturale perde le sue sembianze iconiche, come l’avocado in Fuori Stagione (2023), per dare risalto alla struttura, modulare o meno, nella sua totalità.
Se in questa sala viene anticipato un impiego differente del tessuto, fluttuante nell’aria, entrando nell’ultima si coglie in modo predominante questo aspetto, oltre al tema dei contrasti tra pieni e vuoti sapientemente costruiti sia nelle composizioni che nell’uso del telaio.
La tela qui viene smembrata e ricomposta (Avocado Test A, 2022), lascia intravedere il telaio (Robinia, 2016/17) e ne accentua la sua presenza diventando anche cornice di sé stessa (rombo-dune [ortensia], 2020). Sempre per essere coerentemente a minimo impatto ambientale, il legno dei telai adoperati proviene da selvicoltura sostenibile, da filiera controllata o è di riuso.
Francesco Fossati non vuole riempire o tormentare aggressivamente le menti con problemi legati all’emergenza climatica, ma per primo intraprende questo lungo percorso di evoluzione attraverso piccoli gesti, silenziosi e costanti.
Con i suoi modi delicati, l’artista ci ricorda che siamo circondati e viviamo grazie alla Natura, ma non solo, ci siamo legati e ne facciamo parte.
Francesco Fossati, Eight Autumns, 2023, installation view presso IAGA Contemporary Art, Cluj Napoca, ph. Stefan Badulescu
Francesco Fossati, Eight Autumns, 2023, installation view presso IAGA Contemporary Art, Cluj Napoca, ph. Stefan Badulescu
Francesco Fossati, Eight Autumns, 2023, installation view presso IAGA Contemporary Art, Cluj Napoca, ph. Stefan Badulescu
Francesco Fossati, Eight Autumns, 2023, installation view presso IAGA Contemporary Art, Cluj Napoca, ph. Stefan Badulescu
Francesco Fossati, Eight Autumns, 2023, installation view presso IAGA Contemporary Art, Cluj Napoca, ph. Stefan Badulescu
Francesco Fossati, Eight Autumns, 2023, installation view presso IAGA Contemporary Art, Cluj Napoca, ph. Stefan Badulescu
Francesco Fossati, Eight Autumns, 2023, installation view presso IAGA Contemporary Art, Cluj Napoca, ph. Stefan Badulescu
Francesco Fossati, Eight Autumns, 2023, installation view presso IAGA Contemporary Art, Cluj Napoca, ph. Stefan Badulescu
Francesco Fossati, Eight Autumns, 2023, installation view presso IAGA Contemporary Art, Cluj Napoca, ph. Stefan Badulescu
Nicola Cecchelli - Elogio del Trucco
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- Pubblicato Martedì, 14 Maggio 2013 08:53
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“Chi mai oserebbe attribuire all’arte la sterile funzione di imitare la natura?
Il trucco non ha da nascondersi, né evitare di farsi percepire:
al contrario, può esibirsi se non proprio con affettazione, con una sorta di candore.”i
Charles Baudelaire
Pensando ai White paintings di Robert Rauschenberg risulta di particolare interesse la lettura di Leo Castelli, riportata da Alan Jones nella biografia del gallerista italoamericano: “I dipinti bianchi di Rauschenberg, con l’ombra dei visitatori che passano di fronte alla tela, rappresentano, in un modo curioso, le prime opere performative di un artista americano.”ii John Cage, che s’inspirò proprio a queste opere per concepire la storica composizione per pianoforte 4’33’’, definì i White Paintings superfici che “diventano aeroporti per le particelle di polvere e le ombre che sono presenti nell’ambiente.”iii
I dipinti di Rauschenberg non erano esempi di pittura “tradizionale” per il loro essere monocromatici, aspetto certamente fondante, ma non principale per comprendere la loro unicità. Le opere di Rauschenberg furono rivoluzionarie perché cercavano la pittura non nel pennello dell’artista, ma nello spaziotempo adibito a ospitarle, particolare dimensione che, grazie alle sue continue variazioni, rendeva l’atto di dipingere un processo interminabile.
A pochi anni di distanza, dall’altra parte dell’oceano, Piero Manzoni iniziava il ciclo degli Achromes. In questo caso l’aspetto più interessante fu l’uso di materiali non artistici finalizzati a mantenere suggestioni pittoriche in dipinti privati della caratteristica che li identifica in quanto tali e cioè la pittura stessa: di tela in tela il gesso e il caolino iniziano a lasciare spazio a feltro, polistirolo, pietre, uova e ad altri elementi che avevano come unico comun denominatore il colore bianco. In un saggio coevo alla realizzazione delle opereiv, Manzoni si rivolge a tutti quei pittori che“ si pongono a tutt'oggi di fronte al quadro come se questo fosse una superficie da riempire di colori e di forme, secondo un gusto più o meno apprezzabile, più o meno orecchiato [...] e continuano in questa ginnastica finché non hanno riempito il quadro, coperta la tela: il quadro è finito: una superficie d'illimitate possibilità è ora ridotta ad una specie di recipiente in cui sono forzati e compressi colori innaturali, significati artificiali.”v
Ho citato questi due cicli di opere perché sono stati i primi ricordi suscitatimi da Manifatture l’ultimo progetto di Francesco Fossati. Trovo analogie, infatti, tra l’installazione del giovane artista brianzolo e le opere menzionate in apertura del testo. Proprio come in Rauschenberg la pittura di Fossati, allontanandosi dal classico e riquadrato confine della tela, trova nello spaziotempo il luogo dove dispiegarsi ai sensi, avvalendosi, qui la memoria corre a Manzoni, di elementi extrapittorici che vanno a sostituire colori e pennelli.
Certo è che Manifatture non deve esser considerato un omaggio a questi due grandi artisti, così come ad altri che avremmo potuto richiamare, poiché l’intervento s’instaura consapevolmente nel tempo della propria contemporaneità: in un’epoca dove la pratica pittorica, in cerca di un nuovo status identitario, perde inevitabilmente la sua nostalgica autorità non essendo più, per riprendere le parole di Angela Vettese, “una musa unica, assoluta e autoreferenziale, ma lingua percorribile accanto alle altre."vi
Consapevole del proprio tempo, costellato tanto di “reazionari” ritorni all’ordine quanto di tentativi “progressisti” di ampliare la disciplina in una sorta di superamento della stessa, l’installazione di Fossati va letta come una piccola panoramica attorno a tale pratica contemplata sia nella sua accezione “classica” e anacronistica di mimesis sia in quella meta-artistica di derivazione modernista: la pittura in quanto illusione, le mirabili finzioni di Leonardo da Vinci, la pittura come oggetto specifico e la sua relazione con lo spazio circostante e infine, ma non ultimo, la pittura come desiderio che svela tutta la sua carica di appetibilità nei confronti del fruitore.
Lo stesso titolo del progetto è un ottimo punto di partenza per la nostra analisi: nella lingua italiana il termine manifattura, sia che esso intenda un oggetto lavorato a mano sia con l’ausilio di macchinari, definisce il frutto di un qualsivoglia operare umano.
Questa definizione, seppur approssimativa, può essere applicata alla maggior parte dei dipinti di ieri e di oggi.
Certo è che sin dall’entrata nello spazio espositivo trovare una giustificazione per l’impiego di tale vocabolo diventa difficile. Installata dal margine superiore della porta d’ingresso sino quasi a terra, vi è una parrucca femminile che ci invita a entrare per la sua piacevolezza ma allo stesso tempo preclude la soglia. Una volta penetrata tale “barriera” troviamo vari elementi che dislocati accuratamente all’interno dello spazio compongono l’installazione.
Il primo, sistemato sulla sinistra rispetto all’entrata, è un dittico di tele vergini abbondantemente acconciate da una folta chioma rossa. La voluminosità della capigliatura è accentuata ancor più da un ventilatore che con il suo roteare muove delicatamente le singole ciocche.
La direzione dello spostamento d’aria sposta, peraltro, anche il nostro sguardo sino alla parete sulla destra che accoglie una serie di tre identiche tele anch’esse acconciate e disposte arbitrariamente sulla parete. Qui le chiome pendono rigorosamente verso il basso fermandosi tutte alla medesima altezza dal suolo e andando così a disegnare una linea continua tra le loro estremità.
L’installazione, già dal titolo, è la messa in scena di una finzione.
L’esplicita presentazione di un’illusione dove i ruoli s’invertono: i segni di un’assenza, quella della materia pittorica tradizionale, divengono i segni della presenza del trucco, qui non usato per mascherare ma per esibire, il tutto giocato in un continuo cortocircuito tra obbiettivi discostanti. Il trucco nell’accezione d’illusoria finzione è trasfigurato giacché esibito da una presenza che esplica la reale natura di se stessa: nessuna delle parrucche riuscirebbe a illudere neanche per un momento, poiché, oltre alla palese natura di travestimenti qualitativamente approssimativi, il loro volume non riesce, se non in minima parte, a mascherare, ricoprendole, le bianche tele sottostanti. La parrucca-trucco, o se preferite il trucco-pittura, è resa volutamente incapace di nascondere, di farsi finzione verosimilmente accettabile.
Le fittizie acconciature, tuttavia, oltre a mostrarsi e svelarsi in quanto tali, mostrano e svelano contemporaneamente i limiti tradizionali del quadro propagandosi al di fuori di essi.
La volontà di considerare la pittura come installazione nello spazio e i suoi singoli tratti compositivi come oggetti reali è uno degli aspetti principali dell’intervento. Manifatture sottostà alla concezione di un progetto elaborato per parti progettate esclusivamente per quel particolare spazio espositivo, un organismo dai componenti inscindibili tra loro pena la perdita di quella particolare sensazione: un unico grande dipinto che avendo come limite la sede espositiva stessa, non più quindi i consueti bordi della tela, pretende di far entrare il fruitore materialmente nella restrizione in cui l’opera vive. “L’installazione trasforma lo spazio reale della galleria [...] nella matrice dell’oggetto assemblato, per cui lo spazio, in quanto scena su cui appare l’oggetto, diventa essenziale per l’esistenza stessa di quest’ultimo”.vii
Tutto questo rende Manifatture una specie di gioco di prestigio teso prima a smaterializzare la pittura e successivamente a restituircene qualcosa.
Fossati pur “attaccando” la musa nel profondo vuole però lasciarne intatta l’incantevole bellezza. Non si tratta qui, tuttavia, di una bellezza che potrebbe esser facilmente fraintesa con un tentativo di appagante pratica decorativa, di mero esercizio piacevole agli occhi.
L’autore fingendo non vuole creare ingannevoli illusioni ma mettere in scena il desiderio stesso, precisamente nell’attimo in cui quest’ultimo è proiettato dall’opera al di fuori di sé per attrarre il fruitore.
Manifatture è un elogio del trucco, citando nuovamente le parole di Charles Baudelaire che vide nell’acconciare, cioè nella cosmesi in generale, non qualcosa da rifiutare a priori come mendace e debilitante per l’arte “vera”, nel senso illuminista dell’espressione, ma qualcosa che la arricchisce e la onora. Fossati lontano dal firmare l’ennesimo epitaffio per la disciplina pittorica, rivolge alla di lei mano i suoi ossequi.
Sono partito citando Baudelaire e voglio concludere riportando un suo breve passo, differenziandolo, tuttavia, dall’originale. Ho sostituito, infatti, la parola donna con pittura, come se questa vetusta signora detenesse capacità e volontà proprie, così come la parola natura è stata trasformata in tradizione: “La pittura è proprio nel suo diritto e anzi compie una sorta di dovere quando si studia di apparire magica e soprannaturale: è necessario che stupisca e incanti; idolo deve dorarsi per essere adorata. La pittura perciò deve prendere a prestito da tutte le arti i mezzi di elevarsi al di sopra della tradizione per meglio soggiogare i cuori e colpire gli spiriti”.viii
i Charles Baudelaire, “Le peintre de la vie moderne”, in Figaro, 26 e 29 novembre, 3 dicembre, 1863, trad. it.: Charles Baudelaire, “Il pittore della vita moderna”, in Scritti sull’arte, Einaudi Editore, Torino, 2004, p. 308.
ii Alan Jones, Leo Castelli. The italian who invented art in America, © by Alan Jones, 2007, trad. it.: Alan Jones, Leo Castelli. L’italiano che inventò l’arte in America, Castelvecchi Editore, Roma, 2007, p. 124.
iii John Cage, “On Rauschenberg, artist, and his work”, in Silence: lectures and writings by John Cage, Wesleyan University Press, Hanover, 1961, trad. it.: John Cage, “Su Rauschenberg, artista, e il suo lavoro”, in Renato Pedio (a cura di), Silenzio: Antologia da Silence a A year from Monday, Feltrinelli Editore, Milano, 1971, p. 124.
iv Il testo di Manzoni fu pubblicato originariamente sul secondo numero della rivista Azimuth (1960).
v Piero Manzoni, “Libera dimensione”, in Elio Grazioli - Piero Manzoni, in appendice tutti gli scritti dell’artista, Bollati Boringhieri Editore, Torino, 2007, p. 183.
vi Angela Vettese, “Realismo intimo, una pittura ribelle”, in Patricia Ellis e Gianni Romano (a cura di), Intervista con la pittura, Postmedia Editore, Milano, 2003, p. 7.
viii Charles Baudelaire, op. cit., p. 307.
Francesco Fossati, Manifatture, 2009, installation view at Mon Ego Contemporary, Como, synthetic hair, canvases and fan, variable dimensions